L’Informatore, 28 gennaio 2022

Per anni ho lavorato nella formazione per il Diploma cantonale delle collaboratrici famigliari, le nostre «badanti». Ho avuto l’opportunità di ascoltare tante storie di vita, loro e delle persone assistite da loro. Ho una mamma 81enne, molto in gamba che vive da sola, e una figlia unica di quattordici anni. Onestamente non mi si addice la veste di insensibile oppositrice attenta solo al soldo che aleggia su di noi del Comitato referendario.

Mi pare anzi che sia il progetto del Municipio a porre la razionalità economica al di sopra di altre considerazioni, in virtù delle presunte economie di scala nei servizi sanitari e logistici che si ricaverebbero dalla prossimità della Casa anziani.

Da parte nostra riteniamo che vadano preferite soluzioni più rispettose dei legami affettivi, sociali, identitari delle persone, perché un trasloco è pur sempre un evento traumatico, una cesura, e tutte le risorse disponibili dovrebbero essere investite per evitare, fin dove possibile, di togliere le persone dai luoghi a loro cari e trasferirle altrove in un quartiere edificato ex-novo, senza storia e a vocazione unica.

Quante volte ho sentito dalle collaboratrici famigliari racconti di negoziazioni lunghissime per decidere di rinunciare anche solo ad un tappeto diventato pericoloso? Chiunque abbia una persona cara di una certa età sa benissimo quanto difficile sia allontanarsi da ciò che è familiare e carico di ricordi. Non diversamente mia mamma, orgogliosa e testarda, che pur vivendo con la sola pensione e qualche disagio mai lascerebbe la sua casa per una più piccola e comoda (e, guarda caso, indagini e studi sugli anziani dicono la stessa cosa!).

Penso che ci siano tanti aspetti ancora da chiarire e ponderare attentamente prima di decidere la strada migliore per Novazzano: la fretta è una pessima consigliera. Quante persone effettivamente vivono un disagio per via delle caratteristiche della loro casa? Chi potrebbe beneficiare dei sussidi cantonali esistenti e chi no? Quanti avrebbero piacere di spostarsi comunque in una situazione più protetta? Quanti preferirebbero invece restare a casa loro con qualche aiuto in più? Quali altre aspettative ci sono da parte degli anziani che il Comune potrebbe soddisfare?

Perché non pensare a soluzioni abitative adatte in ogni quartiere, a una rete di sostegno ancora più efficace, che parta dai servizi esistenti e li integri? Per esempio con l’assunzione di un/a custode sociale, che vegli su tutti e dia un piccolo supporto a chi lo necessita, a prescindere dal diritto alle prestazioni complementari. Una modalità di supporto diffusa, anche in una dimensione intercomunale, che tuteli la «naturale» intergenerazionalità delle diverse zone del paese, valorizzi i rapporti di vicinato e li compensi, se e dove necessario.

Una via che non semplifichi l’organizzazione del sostegno assegnandogli uno spazio definito come in una riserva indiana, ma si dia gli strumenti per andare incontro alle persone lì dove vivono e che costruisca insieme agli anziani soluzioni diversificate per esigenze che saranno mutevoli nel tempo.

Serve un progetto più partecipato e di maggior respiro sociale e comunitario, che non poggi solo sulle fondamenta incerte di tre «palazzine» e di un numero imprecisato (imprecisabile) di appartamenti. Guardando alle esperienze dei paesi vicini, se non ci fermiamo a riflettere rischiamo di trovarci con appartamenti vuoti, spazi verdi pubblici cementificati e persone infelici nelle loro case, con e senza barriere architettoniche.

 

Barbara Favoni

 

Seguici anche sui canali social